CHET BAKER: Signature

Esecutore: Chet Baker, tromba; Philip Catherine, chitarra; Jean-Louis Rassinfosse, contrabbasso

Autore: Chet Baker

Numero dischi: 1

Barcode: 8054154650392

Red Records
LP
Jazz
2024
REDLP123341
2024-10-01
45,00 €
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Stampa effettuata dalla Pallas, in Germania

Edizione limitata e numerata a mano

L’uscita di ogni album di Chet Baker, ristampa in vinile, inedito o riedito che sia, costituisce sempre un evento in considerazione dell’ingente mole di cultori del trombettista, specie in Italia. Il concerto da cui il disco in oggetto è stato tratto (almeno in parte) ha subito l’ignominia dell’oblio in Usa, dove l’opera bakeriana viene sovente ridotta ad una sorta di bignamino a margine della storia del jazz che conta. Per contro, in Europa si è progressivamente sviluppata e cementificata, negli anni, una sorta di elefantiasi narrativa intorno alle gesta di un personaggio, in cui il talento naturale, peraltro sfruttato male a causa di un’esistenza randagia, quindi utilizzato peggio ai fini di una sopravvivenza caotica, è stato piegato e finalizzato a mere esigenze da letteratura da fotoromanzo. Talvolta l’estetica del personaggio vagamente maudit e dai tratti cinematografici ha finito per offuscarne, quelle che erano le capacità espressive ed una sorgiva tecnica strumentale che, nonostante fosse incompleta e non supportata da studi avanzati, diventava una sofisticata arma di seduzione di massa, specie dal vivo. Ciò è quanto testimoniano le «cronache» sonore contenute in «Signature», pubblicato in vinile dalla nuova Red Records di Marco Pennisi. Ricorda Philip Catherine, chitarrista di supporto per l’occasione, insieme a Jean-Louis Rassinfosse al basso: «Dopo venti minuti andava così bene che caddi in una specie di trance. Era come se tutto funzionasse da sé. Era difficile suonare con lui? Era facile e difficile insieme. Aveva un senso del tempo straordinario e armonicamente non c’erano passaggi irrisolti. Bastava solo andargli dietro. E aveva un così bel suono…».

In effetti in quella calda notte pugliese, Baker fu protagonista di uno dei momenti più alti della sua frastagliata ed incostante carriera, frutto di un’evoluzione e di una maturazione iniziata alla fine dei Settanta, in cui il trombettista cercava di lasciarsi dietro le spalle quel tipico e furbesco romanticismo rassicurante per bianchi piccolo borghesi, quella sorta di «prevertismo» finto-poetico e pret-a-porter che aveva sovente offuscato l’intimo lirismo della sua musica ad appannaggio di una sofferenza esteriore molto attrattiva, ma incapace di cogliere gli aspetti più reconditi della sua arte e di quel suo saper giocare con lo strumento attraverso un rapido collegamento mani-cervello. Le parole di Philip Catherine corrispondono, in senso lato, a quanto detto su Baker, anni prima, da Gerry Mulligan: «Chet è una sorta di talento fuori dal comune. Non ho mai avuto a che fare con qualcuno che avesse un rapporto più rapido tra l’orecchio e le dita». In quello scorcio di anni Ottanta, tutto ciò si era ancora acuito e Baker suonava come se non ci fosse più un domani, forse poiché avvertiva che il tempo a lui concesso fosse in dirittura d’arrivo: fiumi di alcool, sesso sfrenato, tanta droga, troppi stravizi ed infinite sofferenze e privazioni ne avevano minato il fisico e abbruttito l’aspetto ma, al contempo, gli avevano dato la possibilità di sviluppare maggiori consapevolezze in relazione alla musica e alla capacità di adattarla ad un modulo esecutivo più maturo e completo. Poco meno di tre anni dopo il trombettista di Yale sarebbe morto in Olanda cadendo (o buttandosi) dalla finestra di un albergo.

Il 1985 fu un anno chiave nell’ultimo stralcio di carriera di Chet Baker: il sodalizio con Catherine e Rassinfosse, nato quasi per capo, per un certo periodo fini per solidificarsi dando al trio la fisionomia di un’entità vera, un un piccolo combo affiatato e mutualistico, in cui le parti si interscambiarono i ruoli, specie tromba e chitarra in prima linea, dove Catherine riuscì a fare cose, armonicamente eccellenti, che neppure il più allenato pianista avrebbe saputo fare il quel contesto, fungendo da punto d’appoggio e da contrappunto alla tromba, mentre Jean-Louis Rassinfosse dalla retroguardia riempì esaustivamente gli interstizi non facendo rimpiangere, neppure per un istante, la mancanza di una batteria. Già l’iniziale «Funk Deep Freeze» di Hank Mobley, con il suo corredo genetico soulful a tinte funkfied, stabilisce in maniera inequivocabile le coordinate del viaggio. Ad abundantiam, l’assenza di un kit percussivo concede ai tre musicisti ampi spazi personali, più liberi e svincolati, rispetto all’idea di ritmo contenuto in una dimensione metronomica, i cui contrasti risultano ampiamente sopperiti da un bassista vigile ed attento ad ogni possibile mutamento di passo e di mood. Facendo scivolare la puntina sui solchi, ci si avvede che la variabilità umorale, a volte scalare e nevrotica, del fraseggio chitarristico di Catherine condiziona in parte la narrazione di Baker che risulta più tonico e allo stato di veglia anche nei punti in cui egli affonda la lama nella carne viva del lirismo e del suo naturale pathos esecutivo, così come accade nella struggente e crepuscolare versione di «My Foolish Heart», in cui Baker s’introduce con il canto, quale strumento aggiuntivo. Oltre nove minuti di arte cumulativa dell’ingegno jazzistico, nel quale il corredo armonico fornito dalla chitarra con corde taglienti e tese, in seconda battuta, spinge la tromba ad uscire dall’assopimento sino a giungere ad un finale dove la serpentina accordale induce Baker ad un più flessuoso incedere ed a modus agendi meno ripiegato su sé stesso. L’intermedio chitarristico è una lezione di eleganza e di stile. In chiusura della prima facciata, il trio emana una dose massiccia di swing, giocando per oltre otto minuti con uno standard di Gershwin: «But Not For Me» brilla di luce propria rispetto alle partiture originali già dall’iniziale vocalizzo di Chet che diventa nuovamente il quarto uomo campo; chitarra e basso sferzano l’aria in maniera secca e frastaglia consentendo a tromba di rotolare agevolmente sul tappeto accordale e di improvvisare con un piglio accattivante ed energivoro, mentre al cambio di passo la chitarra ne riprende lo schema espositivo ampliando lo spettro tematico della struttura melodica, forte dell’agile e confortevole propulsione ritmica di Rassinfosse.

Due sole lunghe tracce coprono l’intera seconda facciata dell’album. I quasi undici minuti di «How Deep Is The Ocean» sono una lezione di eleganza e di bon ton esecutivo, in cui l’equilibrio formale non è mai accademico o scontato. L’impianto narrativo è arcuato e ricco di cambi umorali come le onde di un oceano. Tra improvvisazioni e turnazioni sul proscenio, Chet e Philip diventano gli eccellenti sceneggiatori di racconto dai contrafforti cinematici. Il finale è affidato a «Love For Sale» di Cole Porter che, dilatata su una tela sonora di oltre dodici minuti, si arricchisce di ulteriori cromatismi sulla scorta una variabilità e di una ricchezza armonica che Catherine non lesina minimamente, mentre il bassista diventa un rifinitore privilegiato, tanto che Baker sussurra, sprofonda, riemerge, melodizza, battibecca ed improvvisa senza mai rimanere in una zona comfort. Non è il solito Chet, ma molto più, a cui i due sodali spalancano le porte a molteplici escursioni fuori dalla territorialità linguistica tipica del tradizionale portato bakeriano. «Signature» è certamente un documento sonoro di valore storico, a cui si aggiunge il pregio di una qualità acustica di tipo audiofilo, forte oltremodo di un’impeccabile confezione gatefold per vinile da 180 grammi.

Francesco Cataldo Verrina

Chet Baker, tromba; Philip Catherine, chitarra; Jean-Louis Rassinfosse, contrabbasso

Funk In Deep Freeze

My Foolish Heart

But Not For Me

How Deep Is The Ocean

Love For Sale

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